Su una parete del liceo Virgilio, nel centro di Roma, per qualche tempo c’è stato un cartellone con su scritto: “Perché hai bisogno di un’educazione sessuo-affettiva?”. Tutto attorno gli studenti e le studenti della scuola avevano scritto risposte come “Bisogna imparare a rispettare se stessi e gli altri” o “Perché non mi piace l’indifferenza su questi temi”.
“Io vorrei che ai miei coetanei fosse insegnato il consenso e il rispetto reciproco”, dice Martina Mariani, 18 anni, rappresentante d’istituto e parte del collettivo femminista Confronto e azione sociale sull’antisessismo (Casa), a cui si deve, tra le altre cose, l’idea del cartellone. “A volte mi è capitato di chiedere a dei compagni cosa pensassero che fosse l’educazione sessuale e affettiva, e non hanno saputo rispondere”.
L’Italia è uno dei pochi paesi in Europa in cui a scuola non ci sono corsi su questi temi. Dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, nel 2023, il dibattito sulla necessità di programmi di questo tipo si è riacceso, grazie anche a una grande mobilitazione studentesca. E se ne parla di nuovo in questi giorni, dopo i femminicidi di due ragazze di 22 anni, Ilaria Sula e Sara Campanella, uccise da due coetanei.
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) afferma che un’educazione sessuale e affettiva di alta qualità può aiutare nella prevenzione delle violenze di genere fin dall’età adolescenziale.
Sull’onda del caso Cecchettin, il ministro dell’istruzione Giuseppe Valditara ha presentato un piano per le scuole intitolato “Educare alle relazioni”. Un percorso facoltativo, extracurriculare e giudicato insufficiente dalle organizzazioni che da anni si occupano del tema. I cinquecentomila euro stanziati all’inizio per l’educazione sessuale e affettiva nelle scuole, invece, sono stati alla fine destinati a formare gli insegnanti sulla prevenzione dell’infertilità.
Nel libro Sex positive (Laterza 2024), lo psicologo clinico e psicosessuologo Filippo Maria Nimbi ricostruisce la storia del rapporto tra stato e sessualità. “Per quasi un secolo, la prevenzione sanitaria è stata la chiave di lettura principale nel dibattito sulla necessità di educare il popolo a una sessualità più sicura. Un dibattito in costante crescita, ma arrestato dall’avvento del fascismo, che vedeva l’educazione sessuale, la contraccezione e l’aborto come minacce alla salute e alla riproduzione”, scrive Nimbi.
Poi, dagli anni sessanta, con la spinta dei movimenti femministi, l’educazione sessuale comincia a essere vista come uno strumento fondamentale per la crescita. Ma nonostante questo, da allora nessuna proposta sull’insegnamento nelle scuole è riuscita a diventare legge. Anzi, dal primo tentativo nel 1975, ne sono state respinte sedici.
In diverse scuole in giro per l’Italia sono presenti programmi di educazione sessuale o affettiva. Sono però iniziative isolate, messe in piedi a discrezione degli istituti.
Una situazione che pone due problemi. Il primo riguarda le disuguaglianze che si creano per gli studenti, a seconda anche delle risorse economiche delle scuole. Secondo un sondaggio condotto da Save the children nel 2024 su ottocento adolescenti tra i 14 e i 18 anni e quattrocento genitori con almeno un figlio di quell’età, meno della metà, il 47 per cento, ha dichiarato di avere ricevuto un’educazione sessuale a scuola, con differenze tra nord e sud.
La crociata contro l’ideologia di genere
Nelle settimane successive al suo insediamento, il presidente degli Stati Uniti ha emanato una serie di ordini esecutivi per scardinare le leggi progressiste e, in alcuni casi, le fondamenta stesse della democrazia costituzionale.
Il secondo problema ha a che fare con l’approccio usato. Qualche tempo fa, per esempio, le famiglie di studenti di due scuole medie pubbliche di Torino e San Donà di Piave avevano protestato contro un programma di educazione sessuale e affettiva tenuto dall’associazione Teen star, che fa capo a un’organizzazione di tipo religioso. Un caso del genere è successo anche al liceo Montale di Roma.
Molto più spesso, però, questi progetti sono affidati a personale sanitario, che si concentra soprattutto sulla prevenzione di malattie sessualmente trasmissibili o gravidanze indesiderate. Lasciando fuori gli aspetti relazionali, psicologici e sociali.
“Nei cinque anni delle superiori mi è capitato di fare educazione sessuale con diverse associazioni, qualche ente della regione Lazio, e poi privati e medici. Per esempio sono venuti a scuola un andrologo e un ginecologo, entrambi uomini e sessantenni”, ricorda Leonardo Dimola, 18 anni, tra i rappresentanti del liceo Cavour di Roma. Questi incontri, però, “non riguardavano mai l’affettività. Se non quando noi studenti durante le occupazioni o le cogestioni abbiamo chiamato esperte ed esperti per parlarne in maniera più completa”.
Silvia (nome di fantasia) frequenta un istituto superiore della capitale. “Ho avuto la mia prima esperienza sessuale mentre mi trovavo in uno stato d’incoscienza e l’ho capito solo una volta che mi sono risvegliata. Un mio amico non aveva rispettato il mio ‘no’. Avevamo bevuto un paio di bicchieri, ma non abbastanza da non rendersi conto di cosa stava succedendo. Lì per lì non sapevo neanche come comportarmi, come mi dovevo sentire”, racconta.
Oggi fa parte di un gruppo che nella sua scuola si batte, tra le altre cose, si parli di educazione sessuale e affettiva: “Forse anche per le mie esperienze ho preso così a cuore la questione”.
Da anni ormai il modello raccomandato dall’Oms e dall’Unesco è quello della comprehensive sexuality education (Cse), “un processo di insegnamento e apprendimento basato su un programma di studi sugli aspetti cognitivi, emotivi, fisici e sociali della sessualità”. Fatto in modo corretto, e diversificato in base all’età, è “un intervento di salute pubblica di efficacia comprovata”. In questo tipo di approccio il discorso sul consenso è centrale.
In Italia un’iniziativa basata sulla Cse è quella di EduForIst, un progetto cominciato nel 2019. Quell’anno il ministero della salute aveva stanziato dei fondi per un progetto di prevenzione delle infezioni sessualmente trasmissibili nel contesto scolastico. Ad aggiudicarseli era stata l’università di Pisa, che ha coordinato il progetto insieme agli atenei di Foggia e Verona, l’Istituto superiore di sanità e diverse associazioni, tra cui la Croce rossa, l’Arcigay, la Caritas, Lila, Cica, Cnca e il circolo Mario Mieli.
“Per gli standard internazionali, la Cse è un diritto dei bambini, delle bambine, dei ragazzi e delle ragazze. Un diritto a cui è difficile accedere nel nostro paese, ma che permette di prendere decisioni libere, scelte consapevoli riguardanti il benessere e la salute sessuale. E i cui risultati hanno effetti positivi sullo sviluppo personale, relazionale e sociale”, dice Alice Chinelli, dottoranda dell’università di Pisa, che coordina EduForIst con Lara Tavoschi, professoressa di igiene e medicina preventiva nello stesso ateneo e referente scientifica del progetto.
Dal 2022 il progetto coinvolge associazioni ed enti del servizio sanitario regionale. Gli studenti delle scuole medie e superiori di sette regioni – Friuli Venezia Giulia, Toscana, Lazio, Lombardia, Campania, Puglia e Sardegna – partecipano a un percorso di quattro incontri di due ore tenuti da operatori e operatrici delle associazioni partner in cui si parla di emozioni, relazioni sane, consenso, identità di genere e sessuale, sessualità, malattie sessualmente trasmissibili. Un quinto incontro, invece, è basato sulle domande dei partecipanti. Tra le scuole coinvolte c’è anche il Cavour di Roma. Il percorso non riesce a coinvolgere tutti gli studenti a causa della scarsità di personale e fondi.
EduForIst è stato rifinanziato due volte, l’ultima nel 2022, sempre attraverso il sostegno del ministero della salute. Nel giugno 2025, come previsto, terminerà, e al momento non si sa se continuerà, visto che non ci sono ulteriori fondi dedicati a questo tipo di progetti.
Prima dell’inizio del ciclo d’incontri è previsto un colloquio con professori e genitori per spiegare il progetto. “Spesso le famiglie sono curiose, fanno domande, confessano che a loro risulta difficile parlare di queste cose con i figli”, spiega Aida Francomacaro, psicologa e psicoterapeuta che collabora con l’associazione Anlaids e ha tenuto alcuni incontri del progetto in una scuola superiore di Roma.
“Quello che abbiamo apprezzato di più è il modulo sul consenso”, raccontano Annalisa e Chiara (nomi di fantasia), 15 anni, che hanno partecipato al progetto. “Abbiamo visto un video che faceva un esempio con una tazza di tè: se una persona non è cosciente non vuole il tuo tè. Può sembrare banale, all’inizio abbiamo detto che era abbastanza ovvio. Ma poi ci abbiamo riflettuto: non lo è”.
Anche per Emilia Esini, sessuologa ed educatrice che con l’associazione Maghweb organizza incontri basati sull’approccio Cse in scuole siciliane, “il consenso è l’argomento di maggiore interesse”. Oltre a quello, “la parte più problematica è spesso quella relativa a cosa significa stare in una relazione sana, o cos’è la gelosia. Su questo va fatta ancora molta prevenzione. Il racconto che si fa della sessualità è molto lontano da quello che succede nella realtà”.
Secondo un rapporto del 2022 del gruppo di lavoro di EduForIst, in Italia l’educazione sessuale e affettiva è ancora un argomento “controverso”, a causa di “fattori sociali, culturali, religiosi e politici”. Tra cui l’idea secondo cui possa promuovere comportamenti promiscui, la contrarietà ad affrontare temi riguardanti la comunità lgbt+ o la convinzione che si neghi ai genitori il diritto di educare i propri figli.
Sono argomenti che negli anni le organizzazioni ultracattoliche e i partiti di destra hanno usato per contrastare le iniziative di educazione sessuale e affettiva, agitando lo spauracchio della cosiddetta teoria gender.
Lo scorso febbraio l’associazione Provita & famiglia ha lanciato la campagna Mio figlio no per opporsi alle scuole che propongono contenuti educativi sui temi della sessualità “contro la volontà dei genitori”. Poco dopo Alessandro Amorese, capogruppo in commissione cultura alla camera di Fratelli d’Italia, e poi il deputato leghista Rossano Sasso, hanno presentato una proposta di legge per introdurre un consenso informato da sottoporre alle famiglie per la partecipazione di studenti minorenni “ad attività scolastiche vertenti su materie di natura sessuale, affettiva o etica”.
Il quadro che viene dipinto da queste iniziative è quello di una società ostile all’educazione sessuale e affettiva. Ma non è questa la percezione di chi la scuola la frequenta o ci lavora. “C’è un vento di restaurazione molto forte. Ma ci sembra che sia soprattutto mediatico, che non abbia una presa reale sulle famiglie”, dice Monica Pasquino dell’associazione Scosse, che da anni si occupa di diffondere l’educazione al rispetto delle differenze e a decostruire gli stereotipi fin dall’infanzia. “Prima di entrare in classe incontriamo professori e genitori. Diciamo chi siamo e cosa facciamo. Molti sono spaventati dall’uso che fanno i ragazzi dei telefoni, altri dal non saper aiutare i figli e le figlie nel gestire le emozioni. Quando ti metti intorno al tavolo con i genitori di una classe di solito non ci sono resistenze ideologiche”.
A fine gennaio il comune di Roma ha pubblicato un bando da 420mila euro rivolto agli enti del terzo settore per progetti di educazione all’affettività in quindici scuole medie della città. La Lega, Fratelli d’Italia e associazioni cattoliche si sono scagliate contro la misura, accusandola di “spalancare le porte al gender nelle scuole”.
Il comune ha ricevuto più di cento proposte. “Hanno partecipato più della metà delle scuole di Roma e oltre settanta enti del terzo settore. I fatti, insomma, smentiscono le polemiche: danno la misura della domanda diffusa che c’è”, afferma l’assessora alla scuola di Roma, Claudia Pratelli.
Spesso, infine, negli istituti superiori sono gli studenti e le studenti a organizzare momenti di confronto su sessualità e relazioni. Del resto, secondo i dati raccolti dall’osservatorio Giovani e sessualità nel 2023, il 94 per cento vorrebbe l’educazione sessuale parte del proprio percorso scolastico.
All’inizio di marzo, durante un’assemblea d’istituto al liceo Virgilio, il collettivo femminista ha organizzato un incontro con l’associazione Selene, fondata cinque anni fa da quattro ostetriche. Studenti e operatrici si sono seduti per terra in cerchio in cortile per condividere domande, dubbi e considerazioni.
“Abbiamo parlato di sentimenti e relazioni, della società patriarcale, dell’importanza del linguaggio, della violenza di genere, fino ad arrivare al contesto culturale che ci circonda”, spiegano le operatrici.
L’associazione è spesso chiamata da studenti “sia per partecipare ad assemblee e occupazioni sia per provare a immaginare dei progetti da far approvare. Sono prima di tutto loro a essere consapevoli che parlare di queste tematiche a scuola è fondamentale per la loro formazione come persone”.
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