Il lato oscuro di Barbie

Chang’an è “una normalissima città fluviale”, scrive l’attivista cinese nel suo reportage sotto copertura. “Ci sono una grande piazza, due o tre centri commerciali, un paio di quartieri carini, qualche parco, tante fabbriche, stradine, ristoranti e hotel a buon mercato, negozietti, operaie e operai giovani e vecchi, prostitute e gatti randagi”. Per l’autrice tuttavia la cosa più interessante è che nella provincia meridionale di Guangdong si trova una fabbrica dove l’azienda statunitense Mattel produce il suo giocattolo più venduto in assoluto: la Barbie.

L’attivista ci ha lavorato per due settimane, su incarico dell’organizzazione per i diritti dei lavoratori China labour watch. E mentre assemblava le bambole, ha documentato le irregolarità e le situazioni critiche nell’impianto. La sua testimonianza è finita in un rapporto scritto insieme all’ong tedesca per i diritti umani Christ­liche Romero-Initiative. L’amara constatazione è che “ancora una volta abbiamo riscontrato condizioni di lavoro che non solo violano le leggi locali”, ma vanno anche contro gli impegni assunti dalla Mattel. L’attivista racconta per esempio di una “cultura incline alle molestie sessuali”, a ricorrere eccessivamente agli straordinari e a ignorare le misure di sicurezza. La Mattel ha replicato così: “Prendiamo queste accuse con la massima serietà e faremo un’indagine approfondita e indipendente per poter continuare a offrire ai nostri dipendenti un ambiente di lavoro sano e sicuro”. Secondo le stime degli esperti, le fabbriche cinesi producono più di due terzi dei giocattoli venduti nel mondo. In Europa circa l’80 per cento delle importazioni di giocattoli proviene dal paese asiatico. Il tema è tornato al centro dell’attenzione di recente, quando si è saputo che alcuni giocattoli a basso prezzo in vendita su siti cinesi come Temu potevano essere dannosi per la salute.

Per essere assunti non serve un colloquio: basta compilare un modulo usando il cellulare, a patto di non appartenere alle minoranze yi e uigura

La Süddeutsche Zeitung ha svolto delle ricerche sulla catena dei fornitori dei giocattoli venduti in Germania. Ha visitato fabbriche e intermediari in Cina e ha parlato con esperti del settore. La realtà è che molte delle irregolarità riscontrate dal China labour watch nello stabilimento della Mattel sono diffuse anche nel resto del settore. A monte c’è la mancanza di controlli, ma anche l’enorme concorrenza tra le aziende.

Per altri versi, negli ultimi anni le cose sono migliorate nell’industria cinese dei giocattoli. Nelle fabbriche di Shantou, non lontano da Chang’an, i giornalisti della Süddeutsche Zeitung hanno incontrato dei bambini, ma giocavano o facevano i compiti accanto ai loro genitori che lavoravano. Nel corso dell’inchiesta non sono emerse tracce di lavoro minorile, in passato molto diffuso, anche se il governo degli Stati Uniti e l’Ipac, un’associazione internazionale di parlamentari critici nei riguardi della Cina, continuano ancora oggi a denunciare il fenomeno. Gli ultimi rapporti che ne parlavano sono di almeno dieci anni fa, e gli esperti non sono a conoscenza di casi recenti.

Tuttavia, svelare irregolarità in una Cina sempre più autoritaria è diventato pericoloso, visto che la polizia arresta gli attivisti. Alcuni sostenitori del China labour watch sono stati minacciati dalle forze di sicurezza e in certi casi hanno dovuto lasciare il paese. Per questo il rapporto non cita né il nome dell’attivista che ha agito sotto copertura né il periodo esatto del suo impiego. Si parla semplicemente della prima metà del 2024. Le informazioni sono il risultato della sua esperienza e delle interviste fatte a diciassette persone tra operaie e operai occupati in diversi reparti della fabbrica.

Un tempo nello stabilimento inaugurato dalla Mattel nel 1989 lavoravano più di centomila persone, scrive l’attivista. Oggi sono meno di duemila. Nel mezzo c’è stata l’automazione. Quella di Chang’an è considerata una fabbrica dove operai “senza un soldo possono guadagnare qualcosa in fretta”. Molti arrivano da altre parti del paese. Per essere assunti non serve un colloquio: basta compilare un modulo usando il cellulare, a meno che non si appartenga a minoranze discriminate come gli yi o gli uiguri o non si abbiano più di 45 anni. Una volta compilato il modulo, l’attivista ha passato le visite mediche e, dopo una rapida spiegazione, era pronta a sedere per dieci ore alla catena di montaggio.

Nelle foto scattate dal China labour watch si vedono operai con magliette gialle e gilet che mettono i capelli sulle teste delle Barbie o inseriscono le bambole nelle confezioni. “Ero piuttosto lenta, il lavoro è molto faticoso”, scrive l’attivista. Il caposquadra le metteva fretta. Gli insulti dei superiori sono frequenti quando non si raggiungono gli obiettivi di produzione. La pressione è alta: ogni minuto devono essere completati due prodotti. Dato che la catena di montaggio non si ferma mai, per gli operai è difficile anche andare in bagno. Così molte persone bevono poco e a volte lavorano durante le pause per recuperare il lavoro arretrato.

Shanghai, Cina, 5 marzo 2009

(Afp/Getty)

La quotidianità in fabbrica è “deprimente e monotona”. L’attivista viveva con altre cinque persone in un dormitorio all’interno dello stabilimento. I costi per il vitto e l’alloggio erano detratti dallo stipendio. Non è un lavoro fatto per chi cerca contratti a lungo termine. “Lo stipendio è troppo basso”, spiega l’attivista. La paga base di 2.200 yuan (circa 280 euro) al mese è appena sufficiente per sopravvivere, così gli operai sono costretti a fare straordinari, in media 84 ore al mese (alcuni arrivano perfino a 110), anche se il diritto del lavoro cinese autorizza un massimo di 36 ore di straordinario al mese. Con il lavoro extra si possono guadagnare tra i quattromila e i 4.500 yuan (tra i 515 e i 575 euro).

Secondo il rapporto, i dipendenti della fabbrica maneggiano sostanze pericolose senza ricevere alcuna informazione in merito né indumenti protettivi. Gli incidenti si verificano regolarmente, come per esempio le fratture causate dal lavoro con i carrelli elevatori. Anche se esiste un sindacato ed è attiva una linea telefonica per i reclami gestita dall’Ethical supply chain program (Espc), un’iniziativa lanciata dall’International toy industry association, i lavoratori non conoscono bene i loro diritti e i loro doveri. Gli attivisti del China labour watch e della Christliche Romero-Initiative sono sconvolti in particolare dal fatto che tutte queste irregolarità erano già state denunciate nel 2020, in seguito a una precedente operazione sotto copertura nella fabbrica. Ma da allora, a quanto pare, la Mattel “non ha fatto cambiamenti”. L’azienda non ha voluto rispondere alle accuse nello specifico, limitandosi ad affermare che s’impegna a “creare un ambiente di lavoro sicuro e sano e a garantire che tutti i dipendenti dell’azienda, compresi quelli degli impianti produttivi, siano trattati in modo equo e rispettoso”. E ha aggiunto: l’International council of toy industries “fa regolarmente controlli nelle nostre fabbriche per garantire che gli standard di sicurezza sul posto di lavoro siano rispettati”.

Gli attivisti accusano inoltre l’azienda di “femminismo ipocrita”. Con il suo film hollywoodiano Barbie, la Mattel si è fatta in apparenza promotrice della parità di genere. Ma il trattamento riservato alle donne nella sua stessa fabbrica è diverso: non ci sono spazi per quelle incinte o che allattano; molte non possono permettersi il congedo di maternità e devono affidare i neonati alle cure dei nonni nei villaggi d’origine. Anche se le norme lo consentono, le dipendenti non possono richiedere un permesso retribuito nel caso di dolori mestruali. Inoltre, gli uomini hanno facile accesso ai dormitori femminili, dove le lavoratrici sono esposte a fischi e a “sguardi sessualizzanti”. L’azienda non ha voluto commentare.

Una visita a Shantou rivela che quello della Mattel non è un caso isolato. Come a Chang’an, anche qui le fabbriche sono specializzate nella produzione di giocattoli, soprattutto di plastica. Le stradine della città sono gremite come un formicaio. Dalle porte aperte degli stabilimenti si possono vedere le macchine per lo stampaggio a iniezione che fabbricano i singoli pezzi, che poi finiscono in uno stabilimento dall’altra parte della strada, dove gli operai assemblano i giocattoli. Infine, in un altro capannone i prodotti sono imballati e spediti.

Incontriamo Long, un’operaia di 39 anni. È originaria della vicina provincia del Guangxi e ha un figlio adolescente in età scolare che non vede da sei mesi. “Sono troppo stanca per tornare a casa”, dice. Alla luce di una lampada, lei e suo marito stanno assemblando macchine da caffè giocattolo destinate all’esportazione mentre un ventilatore smuove l’aria umida. Per Long e i suoi colleghi il diritto del lavoro vale solo in teoria. “Lavoriamo dodici ore al giorno”, spiega, dalle otto del mattino alle dieci di sera, con due pause. La pagano a prestazione: ogni giorno assembla dai cento ai duecento giocattoli per circa 170 yuan (21 euro). Nelle ultime due settimane non ha mai avuto un giorno libero. Il lavoro nelle fabbriche è stagionale. Secondo l’Espc, quando d’estate si preparano gli ordini natalizi, qui ci lavora quasi il doppio delle persone rispetto all’inverno. Una volta finiti gli ordini, Long e suo marito cercano altro.

Molte donne non possono permettersi il congedo di maternità

Questa flessibilità è il segreto del successo dell’industria cinese, afferma Tony Chen, fondatore di un’azienda che aiuta gli intermediari stranieri a ordinare i giocattoli. Chen ci ha fatto visitare una fabbrica che fino al 2020 produceva bambole e ora vende microscopi digitali e altri giocattoli scientifici. L’abbiamo accompagnato anche mentre girava con un carrello della spesa alla ricerca di novità in uno dei numerosi saloni espositivi di Shantou, dove le fabbriche mostrano i loro prodotti. Si ferma davanti a un pupazzo dell’Uomo ragno. Non ha la licenza e costa solo un euro. “Se lo vendessi in Europa, sarebbe un problema. In Asia o in Medio Oriente no”, dice. Poco più avanti, per meno di dieci euro ci sono scatole di mattoncini che somigliano in modo sospetto ai Lego. “Sai quanto sono folli i prezzi della Lego”, commenta Chen. Sulle confezioni di alcuni giocattoli i produttori hanno scritto combinazioni di lettere e numeri: EN71, EN62115, standard europei a cui dichiarano di conformarsi. Molti produttori si pubblicizzano con i loghi dei negozi online su cui sono disponibili i loro articoli: Amazon, Temu, AliExpress, Ebay, Tiktok. All’inizio del 2024 l’associazione europea dei giocattoli ha comprato su Temu 19 prodotti e li ha fatti testare in laboratorio. Diciotto non rispettavano gli standard.

Chen non è sorpreso. Molte piccole aziende esternalizzano alcune delle fasi di lavoro e questo rende più difficile il controllo della qualità. E poi c’è sempre un concorrente che vende lo stesso prodotto a un prezzo più basso. “Così nessuno si concentra sulla qualità”, dice. Un tempo era molto diffusa la contraffazione di prodotti occidentali, mentre oggi il governo cinese incoraggia le aziende a brevettare i loro prodotti, in modo che la maggior parte del valore aggiunto resti nel paese. Gli esperti, infatti, affermano che noti marchi tedeschi comprano linee di prodotti interamente sviluppate in Cina, ci attaccano sopra il loro logo e poi le rivendono come proprie. Così i fornitori cinesi hanno cominciato a creare i propri marchi d’esportazione e a proporli, per esempio, alla fiera dei giocattoli di Norimberga, suscitando le lamentele di molte aziende tedesche. Ma la concorrenza non può sempre ricadere sulle spalle dei dipendenti.

“Sono scioccata”, dice Ni Yaping, quando sente come sono le condizioni di lavoro alla Mattel. Cose del genere erano normali dieci o vent’anni fa, non oggi. Ni, che lavora da trent’anni nel mondo dei giocattoli, dirige lo stabilimento della Suqian Yimei Textile Products, azienda fornitrice del marchio bavarese di peluche Heunec che ha ricevuto il sigillo della Fair toys organization di Norimberga, un’iniziativa lanciata da aziende di giocattoli, associazioni di consumatori e organizzazioni della società civile. L’amministratrice delegata della Heunec, Barbara Fehn-Dransfeld, non ha esitato a farci incontrare il suo fornitore nella provincia di Jiangsu. Lo stabilimento è pulito e luminoso. I laser ritagliano parti di tessuto verde e giallo per i draghi, poi le operaie cuciono a macchina braccia, gambe e teste. I dettagli come il naso e la bocca sono ricamanti a mano dalle colleghe nella stanza accanto. I peluche vengono poi imbottiti e sigillati. L’addetto al macchinario indossa mascherina e cuffie per la protezione dell’udito. Lo stipendio è di tremila yuan (circa 380 euro). Con i premi di produttività si ricevono tra i quattromila e i settemila yuan, lavorando otto ore al giorno per cinque o sei giorni alla settimana. La maggior parte dei dipendenti viene dalla zona e non vive in fabbrica. Ci sono una mensa gratuita per il pranzo e centri estivi per i bambini.

Tutto questo però ha un prezzo. “Un peluche prodotto in modo sostenibile costa circa il 10 per cento in più rispetto a uno sintetico realizzato con metodi convenzionali”, spiega Fehn-Dransfeld. E non importa quanti certificati collezionino i produttori, non si avrà mai una sicurezza al 100 per cento. I controlli indipendenti “non sono la garanzia che tutto è in regola, ma restano un elemento importante”. Anche far rientrare i fornitori che si sono trasferiti in Cina non è una soluzione. Un peluche prodotto in Germania, infatti, non è per tutti: costa tre o quattro volte di più. ◆ nv

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