Quando nel 2015 Orlando Botti si è messo in viaggio per Ferrara erano passati dieci anni esatti dalla morte di Federico Aldrovandi. Botti, che vive a Imperia e oggi ha 77 anni, voleva essere presente nella città emiliana per il decimo anniversario di quel 17 luglio 2005, giorno in cui Aldrovandi, che aveva 18 anni, era stato brutalmente ucciso da alcuni agenti di polizia durante un controllo in strada. Botti aveva preso a cuore la storia fin da subito, instaurando un rapporto di amicizia con i genitori di Aldrovandi.
Botti ha lavorato nella polizia dal 1966 al 1996, arrivando a ricoprire la posizione di ispettore capo. Negli anni settanta aveva cominciato a incontrarsi di nascosto con alcuni colleghi, tra cui degli ex partigiani, per immaginare una polizia diversa: sindacalizzata, smilitarizzata e democratica, in cui non ci fosse spazio per i metodi brutali e violenti. Le loro battaglie nel corso degli anni sono andate perse, ma Botti e pochi altri hanno continuato a denunciare i malfunzionamenti del sistema. Prima da poliziotti, poi da pensionati.
“Quando è stato ucciso Aldrovandi molti agenti e funzionari di polizia hanno sostenuto i colleghi indagati e poi condannati. Ci sono stati anche presidi in loro solidarietà”, racconta al telefono Botti. “Lo stesso succede ogni volta che emergono nuove storie di abusi compiuti da chi indossa la divisa, è una difesa di tipo corporativo. È la dimostrazione che le battaglie del nostro movimento sono andate perse”.
Il movimento dei carbonari
All’inizio degli anni settanta la fiducia degli italiani nelle forze di polizia era ai minimi storici. Dopo la caduta del fascismo c’era stata una parziale epurazione dei vertici dell’istituzione, ma quasi subito le persone rimosse erano tornate al loro posto. La polizia era caratterizzata da autoritarismo e violenza. Nel 1950 alcuni agenti avevano sparato contro un gruppo di operai in sciopero alle Fonderie riunite di Modena, uccidendone sei. Dieci anni dopo, nel luglio 1960, era successo di nuovo a Reggio Emilia, con cinque morti. Con le proteste studentesche e operaie della fine degli anni sessanta la repressione della polizia si fece ancora più pesante. L’Italia, tra l’altro, era l’unica democrazia occidentale ad avere forze di sicurezza – cioè polizia, carabinieri e guardia di finanza – interamente militari.
Negli anni però settanta cambiò qualcosa. Alcuni agenti, che si autodefinivano “carbonari”, cominciarono a riunirsi clandestinamente per discutere del futuro della polizia. Volevano cambiare la loro condizione precaria fatta, tra le altre cose, di stipendi bassi, straordinari non pagati e obbligo di celibato fino a una certa età. Chiedevano la smilitarizzazione della polizia, in modo che la gestione della pubblica sicurezza passasse sotto l’ordinamento civile. E chiedevano un processo di democratizzazione per superare la violenza e l’autoritarismo che caratterizzavano la polizia.
“Eravamo illegali, ci incontravamo in fondo al molo di Imperia per controllare se arrivava qualcuno”, ricorda Botti. “Quando abbiamo cominciato avevamo ben impressi nella mente gli operai uccisi a Reggio Emilia e le altre vicende simili. Osservavamo questi fatti e volevamo fare in modo che non succedessero più. Volevamo democratizzare la polizia per evitare violenze sugli arrestati e mettere la parola fine alla forza bruta con cui si garantiva l’ordine pubblico”. Inizialmente questi agenti carbonari formavano gruppi piccoli. Poi si trasformarono in un movimento vero e proprio, che venne allo scoperto. Decisivo fu il giornale Ordine pubblico, diretto dal fotografo, giornalista ed ex partigiano Franco Fedeli. “La rivista cominciò a parlare dei problemi della polizia in modo radicale e fortemente critico, al di fuori dei canoni istituzionali”, spiega Michele Di Giorgio, ricercatore all’università di Bari e autore del saggio Il braccio armato del potere (Nottetempo 2024). “Ordine pubblico diventò un centro di coordinamento per l’attività dei poliziotti carbonari, aiutandoli a organizzare le riunioni, favorendo la mobilità delle persone e delle idee, e facilitando il dialogo con la politica”.
Furono soprattutto il Partito comunista italiano (Pci) e quello socialista ad ascoltare i poliziotti carbonari. Nelle elezioni regionali del giugno 1975 il Pci fu il partito più votato in una caserma del reparto celere di Milano, e lo stesso successe in altri seggi in cui votavano solo agenti di polizia.
I carbonari sognavano una rivoluzione democratica della polizia. Ma la loro battaglia fu piena di ostacoli. Se da una parte ottennero il sostegno pubblico di persone come il giurista Stefano Rodotà, dall’altra dovettero far fronte all’ostracismo di altri, tra cui il giornalista Indro Montanelli. Furono ostacolati anche dal governo e dai vertici della polizia stessa. “Una serie di provvedimenti punitivi colpirono i poliziotti democratici, sia nella fase clandestina sia in quella pubblica. All’interno della polizia si scatenò la caccia a chi sosteneva la causa riformista”, ricorda Di Giorgio.
Mario Bruno Piras ha 75 anni e ha lavorato nella polizia fino al 2002. Negli anni settanta fu un carbonaro a Nuoro, in Sardegna, e per questo rischiò più volte di perdere il lavoro. Fu denunciato al tribunale militare, fu trasferito due volte e sottoposto a una perizia psichiatrica, da cui ne uscì senza conseguenze solo perché anche il medico militare che lo visitò era un carbonaro. “Eravamo convinti di poter avere una polizia democratica al servizio dei cittadini ed eravamo disposti a tutto per raggiungere questo obiettivo”, ricorda oggi Piras. “Rischiavamo perizie psichiatriche, trasferimenti e altre misure punitive ma ogni manifestazione, ogni incontro, ci incoraggiava a non fermarci”.
Anche Franco Fedeli subì questi attacchi e anche lui non si fece intimidire. Nel 1976 su pressione del governo fu licenziato dall’editore di Ordine pubblico. Questo rischiò di segnare la fine del movimento, ma nel giro di qualche settimana Fedeli fondò un’altra rivista, Nuova polizia e riforma dello stato, attraverso cui continuò la battaglia riformista.
Nell’aprile 1981, dopo più di dieci anni di lotte, con cortei, scioperi e occupazioni, fu approvata la legge di riforma. La polizia passò sotto l’ordinamento civile, e sulla carta doveva essere più vicina ai cittadini.
(Romano Gentile, A3/Contrasto)
La nuova legge insisteva sul rispetto della costituzione e dei princìpi democratici. Fu infine consentita la creazione di sindacati di polizia – così nacque il Sindacato italiano unitario lavoratori polizia (Siulp) – e furono ammesse le donne. Doveva essere la vittoria dei carbonari, ma ci volle poco tempo per capire che non era così. Alla guida del Siulp cominciarono ad alternarsi dirigenti che non avevano avuto un ruolo nel movimento dei carbonari e nacquero altri sindacati dichiaratamente ostili al movimento, come il Sap.
Nel 1982 furono rivelate le torture subite dagli indagati per il sequestro Dozier, l’imprenditore statunitense rapito dalle Brigate rosse, e commesse da agenti di polizia. Nonostante la riforma, i problemi della polizia erano ancora lì, uguali a prima. Anche le intimidazioni, le punizioni e l’emarginazione subite dai poliziotti che denunciarono le torture, cioè Riccardo Ambrosini, Gianni Trifirò e Augusto Fabbri, apparvero come un tradimento degli ideali della riforma.
“Dopo l’approvazione della riforma della polizia c‘è stato un disinteresse totale sulla sua applicazione”, sottolinea Di Giorgio. “Quella legge doveva essere l’inizio di un percorso di riforma generale ma di fatto resta una riforma disattesa. Il grosso dei problemi è rimasto e in assenza di una spinta sindacale e dell’apporto del movimento dei carbonari è venuta meno tutta la parte ideale”.
C’è una data che secondo gli ex carbonari segna la morte definitiva della riforma della polizia, o quanto meno dei suoi ideali. Il G8 di Genova del 2001 e quello che il vicequestore Michelangelo Fournier definì una “macelleria messicana”: la scuola Diaz, le torture alla caserma di Bolzaneto, l’omicidio di Carlo Giuliani, i depistaggi e le assoluzioni di vertici e sindacati che ne seguirono.
Quando nella notte del 21 luglio 2001 dalla scuola Diaz di Genova partirono le ambulanze con decine di manifestanti e giornalisti feriti, Roberto Sgalla, il portavoce della polizia che poi ha fatto carriera fino a dirigere la scuola superiore di polizia, si presentò davanti all’edificio e disse che le ferite dei ragazzi e delle ragazze risalivano agli scontri dei giorni precedenti, e che nella scuola c’erano i black bloc. Una versione poi smentita dalle testimonianze e dalle prove. “Che a dire questo fosse il portavoce della polizia non c’era forse da stupirsi, peccato che quelle parole furono pronunciate da quello che fino a poco tempo prima era stato il segretario generale del Siulp, il sindacato nato dal nostro movimento”, sottolinea Botti. “Il G8 ha limitato e offeso tutti i nostri sforzi di fare pulizia”.
Ascolta | Limoni, il podcast di Internazionale sul G8 di Genova
Quando nella notte del 21 luglio 2001 dalla scuola Diaz di Genova partirono le ambulanze con decine di manifestanti e giornalisti feriti, Roberto Sgalla, il portavoce della polizia che poi ha fatto carriera fino a dirigere la scuola superiore di polizia, si presentò davanti all’edificio e disse che le ferite dei ragazzi e delle ragazze risalivano agli scontri dei giorni precedenti, e che nella scuola c’erano i black bloc. Una versione poi smentita dalle testimonianze e dalle prove. “Che a dire questo fosse il portavoce della polizia non c’era forse da stupirsi, peccato che quelle parole furono pronunciate da quello che fino a poco tempo prima era stato il segretario generale del Siulp, il sindacato nato dal nostro movimento”, sottolinea Botti. “Il G8 ha limitato e offeso tutti i nostri sforzi di fare pulizia”.
Negli anni successivi alla riforma qualcuno cercò di tenere vivi gli ideali riformatori degli anni settanta. Sicuramente Franco Fedeli, che continuò la sua attività giornalistica. Ma anche alcuni ex poliziotti. Tra loro Mario Bruno Piras, che continuò a subire ripercussioni per posizioni ritenute scomode. Nel 2000 fu fermato per traffico di droga, ma poi è stato rilasciato. “Per il mio tentativo di cambiare le forze dell’ordine, per le mie lotte sempre più solitarie condotte anche dopo la riforma del 1981, ho vissuto sulla mia pelle il modus operandi che ho sempre denunciato”, ricorda. “Io ho creduto in una polizia democratica, ma durante il fermo che ho subìto, e ancor di più dopo il G8, ho capito che la battaglia era persa”.
Le ferite di Genova
I ragazzi che il 21 luglio 2001 erano alla Diaz e alla caserma di Bolzaneto raccontano le violenze della polizia. L’inchiesta del Guardian sulla notte in cui ogni diritto civile venne sospeso.
Dopo il G8 di Genova nuove storie di violenze hanno coinvolto la polizia e le altre forze dell’ordine. Dall’uccisione di Federico Aldrovandi a Ferrara, nel 2005, a quella di Stefano Cucchi a Roma, nel 2009; passando per vicende più recenti come le violenze nella caserma Levante di Piacenza e nella questura di Verona, o le morti di Ramy Elgaml a Milano e di Moussa Diarra a Verona.
Di abusi e violenze si è parlato in modo sempre più frequente anche per le carceri, come nel caso di Santa Maria Capua Vetere nel 2020. Vicende che ogni volta hanno messo in moto una serie di depistaggi e assoluzioni da parte dei sindacati e dei vertici istituzionali. Mentre le persone condannate o indagate hanno poi fatto carriera o sono rimaste ai propri posti, come è successo per Genova.
La riforma del 1981 e le idee alla sua base non sono state tradite solo in questo modo. A partire dagli anni duemila il reclutamento degli agenti di polizia è stato fatto sempre meno attraverso i concorsi e sempre più con l’assunzione di ex militari. Con la cosiddetta riforma Madia del 2015 è stato poi rimilitarizzato il corpo forestale, che fino a quel momento era civile. “Il primo pilastro della riforma era la smilitarizzazione, così da toglierci dal giogo del codice penale militare. Eppure negli ultimi anni c’è stato un processo di rimilitarizzazione strisciante”, denuncia Botti. “Oggi per un controllo in strada ci si imbatte in agenti che fino a qualche anno prima erano in missione in Afghanistan. Persone che hanno una mentalità militare, addestrati per affrontare nemici, non cittadini”.
Nel 1995 Franco Fedeli aveva deciso di lasciare il giornale Nuova polizia a causa di dissidi con l’editore. In un momento in cui gli ideali degli anni settanta erano già quasi del tutto svaniti, la scelta di Fedeli suonava come un’ulteriore rottura. Nonostante l’età e due anni prima della sua morte, Fedeli decise però di fondare un’altra rivista, Polizia e democrazia. Oggi questa rivista esiste ancora, esce ogni due mesi e cerca di tenere vivo il dibattito su temi come la smilitarizzazione e la democratizzazione delle forze di polizia.
“Siamo rimasti gli ultimi a cercare di portare avanti quella memoria, grazie anche ad articoli sull’epoca dei carbonari e le istanze riformiste in polizia”, racconta Michele Turazza, coordinatore della redazione. “Cerchiamo di parlare dei temi relativi alla sicurezza con un occhio critico, coinvolgendo nella scrittura anche docenti universitari e ricercatori, com’era nello spirito di Fedeli”. L’ultima grande battaglia portata avanti dalla rivista è stata contro la rimilitarizzazione del corpo forestale. “Invece di vedere smilitarizzata anche la guardia di finanza, che era una delle battaglie degli anni settanta, abbiamo assistito alla rimilitarizzazione del corpo forestale, voluta dal governo di Matteo Renzi”, dice Turazza.
Negli ultimi anni su Polizia e democrazia hanno trovato spazio questioni come i rischi dell’uso del taser (arma in grado di paralizzare una persona con forti scariche elettriche) l’importanza dei codici identificativi per gli agenti, il problema degli abusi di potere in carcere e i vari decreti sicurezza. La diffusione di Polizia e democrazia oggi però è molto più limitata di un tempo. E anche il pubblico è cambiato. Gli abbonati sono soprattutto avvocati, accademici, semplici cittadini, mentre la circolazione negli ambienti di polizia si è ridotta drasticamente. Un segno di come queste battaglie non facciano più presa tra gli agenti.
Tra chi cerca di tenere vivi gli ideali del movimento dei carbonari c’è anche la sezione Maurizio Giglio dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi), nata nel 2023 e composta solo da agenti di polizia.
“Il termine poliziotto antifascista per noi non è un ossimoro ed è importante rivendicarlo”, spiega il presidente, Vittorio Berti. “L’eredità antifascista la ritroviamo nella costituzione e dal nostro punto di vista concetti come democrazia, asilo, accoglienza e libertà di dissenso devono mantenere un ruolo centrale nel paese”. Oggi la sezione, che ha preso posizione a favore dei codici identificativi per gli agenti, conta una settantina di iscritti, molti provenienti da esperienze nel sindacato di sinistra Silp-Cgil. Negli ultimi anni sono nate altre esperienze democratiche. Dal 2005 l’associazione Polis aperta, animata da un gruppo di persone lgbt+ che lavorano nelle forze di polizia e in quelle armate, organizza corsi di formazione, incontri e convegni per promuovere una cultura inclusiva all’interno di queste istituzioni. Nel 2010 il dipartimento della pubblica sicurezza ha istituito l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad), un gruppo interforze per prevenire, contrastare e offrire supporto alle persone vittime di crimini d’odio. Oggi questa realtà esiste ancora, ma è sempre meno attiva.
“Non esiste più niente di portata paragonabile alle istanze e agli ideali degli anni settanta. È rimasta solo qualche iniziativa isolata intorno ai sindacati più progressisti”, sottolinea lo studioso Di Giorgio. “C’è una certa paura a esporsi e anche per chi fa ricerca è difficile riuscire ad aprire un dialogo con le forze di polizia perché i protocolli e i meccanismi di controllo sul personale sono molto rigidi. Manca soprattutto il clima sociale e politico che c’era all’epoca. Se oggi il centrosinistra ragiona sulle politiche di sicurezza come le destre o in modo poco diverso, su quale partito, sindacato o associazione potrebbero contare le persone appartenenti alle forze dell’ordine nel momento in cui dovessero decidere di esporsi?”.
Il 26 febbraio 2025 il Siulp, il sindacato nato nel 1981 dalle lotte dei poliziotti democratici carbonari, ha organizzato un convegno a Torino. Sul volantino dell’evento si attaccavano il politicamente corretto, gli immigrati e l’Europa che ha accusato le forze dell’ordine italiane di profilazione razziale.
Tra i relatori c’erano l’eurodeputato della Lega Roberto Vannacci e Marco Rizzo, coordinatore nazionale di Democrazia sovrana popolare. “Ecco che fine hanno fatto le nostre lotte”, dice l’ex carbonaro Orlando Botti. “Il nostro tentativo di fare una rivoluzione culturale è stato sconfitto. E se questo è il presente, il futuro della polizia non potrà che essere peggiore”.
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