ROMA – Lino Banfi, 89 anni il 9 luglio (anche se venne iscritto all’anagrafe solo l’11 luglio).
Qual è il primo ricordo che ha di sé stesso?
«Quello di far ridere gli altri. Appena nato, mia madre diceva che quando ho aperto gli occhi avevo un sorriso enorme. E poi, a sei o sette anni, c’era la guerra, i bombardamenti a Canosa di Puglia. Quando suonavano le sirene correvamo al ricovero, e mio nonno mi gridava sempre: “Pasqualino, ricordati i pupazzi!”. Io me ne portavo dietro due che avevo costruito da solo, Orlando e Rinaldo, ispirati alle marionette che vedevo nel teatrino vicino casa. Non avevamo soldi, gli altri pagavano con mandorle o olive ma io non avevo nemmeno quelle, mio padre faceva un’altra agricoltura. Allora mi facevo dare qualche lira per inscenare l’Orlando furioso coi pupazzi. Ero piccolo ma imitavo le voci e facevo ridere i miei coetanei, per non piangere mentre fuori suonavano le sirene. Poi sono cresciuto e sono andato in seminario, i miei mi volevano prete. Avevo undici anni. Anche lì, durante le recite sacre, facevo ridere tutti. Dicevano che il mio tono di voce era diverso. Insomma, ho sempre fatto ridere. E oggi che ho quasi novant’anni, la domanda che mi faccio è: ‘Ma a me, chi “chezzo” mi ha fatto ridere?».
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Chi l’ha fatta ridere di più?
«Nessuno. Nel senso che, essendo uno buono, altruista, che non vuole male a nessuno, sorrido per niente, mi fanno ridere le cose puerili, le sciocchezze, quelle che non hanno pretesa di cultura. Non mi piacciono quelli che si presentano come comici ma ti sbattono in faccia che sono colti, plurilaureati, pieni di sé. Quelli non mi fanno ridere, anzi, mi fanno arrabbiare».
Nel suo libro “Hottanta voglia di raccontarvi” scrisse che tra Fiorello, Maurizio Crozza e Roberto Benigni preferisce Crozza. Perché?
«Perché si inventa le imitazioni, ha una comicità fisica. Ha la fortuna, come ce l’aveva il grandissimo Alighiero Noschese, di avere un fisico neutro, che non resta impresso, che non assomiglia a nessuno. Così può trasformarsi in qualunque personaggio. Mi piace ancora oggi».
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Pio e Amedeo? Le piacciono?
«Da quando li ho conosciuti mi piacciono ancora di più. Sono in gamba, pugliesi fino al midollo. Vogliono fare cose belle, non fermarsi a quello che sono. Dicono che vogliono crescere artisticamente, e ci credo. Stiamo lavorando insieme a un film. Siamo stati a Vieste, abbiamo girato delle cose, stiamo costruendo i personaggi, stanno scrivendo. Dal 19 starò lì una ventina di giorni per creare il cuore del personaggio, un vecchio che riesce a far mettere d’accordo due che non vanno d’accordo da una vita. Unire la loro generazione con quella dei loro padri. Sono il nonno d’Italia e lì lo dimostrerò».

Avrebbe pensato di tornare sul set per una nuova stagione di “Un medico in famiglia”, ritrovare Nonno Libero?
«No, e soprattutto oggi sono bisnonno, da quattro mesi. È un’emozione bellissima, curiosa… ma anche assurda, si può dire? Ogni volta che mi mostrano questa creaturina che mi guarda e sorride, ho paura a prenderla in braccio: è fragile. Però so che è parte di me».

E lei ha anche aiutato a far nascere sua figlia Rosanna, fisicamente. Una bambina di 4 chili e 9.
«Oddio, feci un casino. Vivevamo in affitto, ci eravamo appena trasferiti, scappati via. I familiari di Lucia non mi volevano: chi mi voleva uccidere, chi ferire, chi trasferire da Canosa. Poi sono diventati i parenti più belli che abbia avuto. Mio suocero, che diceva “gli taglio la testa”, m’è morto in braccio a me, per dirlo alla romana. Alla fine li ho fatti venire tutti a Roma. Sgarbi ha ragione: Banfi andrebbe studiato nelle scuole. Sono strano. Non ho mai fatto vendette classiche, tipo aspettare qualcuno sul fiume. A parte che è laborioso stare seduti vicino al fiume e non so nuotare. Io mi vendico facendo del bene a chi mi ha fatto del male. È il massimo della stranezza, ma funziona. Mi ricordo uno con cui litigai nel nostro mondo dell’avanspettacolo, per un malinteso. Una volta mi disse: “Tu non farai mai carriera, sarai un povero morto di fame”. Io risposi: questo non si può sapere, magari succede il contrario. Me ne andai dalla compagnia. Al primo film da protagonista, lo chiamai a lavorare con me e, siccome prendeva poco, gli raddoppiai io il cachet. Se lo è ricordato per tutta la vita: come ho fatto a sbagliare così su di te».


Lei sa cosa vuol dire avere davvero fame. Quanto le è rimasto dentro questo ricordo?
«È una cosa brutta, bisogna viverla per capirla. E non era solo fame: era anche mancanza di sonno, di un letto. Al Nord c’erano i cartelli “non si affitta ai meridionali”. Dovevi pagare prima, la sera, per dormire in una camerata con venti persone. Quindi non avevi da mangiare, non avevi da dormire. Ho passato notti nelle stazioni ferroviarie, negli anni 50, con vecchi barboni o giovani che cercavano lavoro, sarti, parrucchieri, calzolai, ti toccavano i lavori abusivi che rasentavano l’illegalità. Per fortuna non ho mai fatto cose illegali. E per fortuna poi mi hanno chiamato a fare il militare vicino a Sanremo e lì avevo da mangiare e dormire, era anche pieno di turiste tedesche, grande vita».
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Ha fatto il “cambiatore di gettoni”.
«Il gettonista era un mestiere nobile, ti vestivi bene, con la borsa in mano, ti fingevi imprenditore, mostravi cinquemila lire per i gettoni, dicevi “devo cambiare ma nessuno mi aiuta”. Si intenerivano e ti davano un paio di gettoni, ne facevi trenta o quaranta e se eri furbo come me, che cambiavi sempre posto, li consegnavi in trattoria e cenavi. La fame è terribile. A volte una banda di ladri tentò di ingaggiarmi come complice e volevano che fischiassi O sole mio se arrivava la polizia. Ma non riuscivo, il fischio non usciva, me la facevo sotto dalla paura. Non era per me. Preferivo inventarmi altri mestieri, il gettonista, ma ho anche venduto orologi falsi ai napoletani… è tutto dire. Tutto ho fatto nella vita. Ma il fischio, la polizia, la galera, non faceva per me».
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Lei ha sempre sofferto per il peso, oggi che rapporto ha con il suo corpo?
«Sono sereno, sapendo che non ho mai fatto sport: non so nuotare, sciare, andare a cavallo, mai fatte maratone. Nulla di tutto ciò, anzi sempre meno. E i medici mi dicono ‘Lino, devi camminare, devi camminare’. E io dico: ogni volta che cammino mi fermano per saluti e fotografie, non mi fanno camminare, e allora che chezzo ci vado a fare?».
A proposito di non saper nuotare: Antonello Venditti durante una serata trascorsa con lei rischiò di annegare.
«Eravamo nella sua casa, campagna romana. Era andata via la luce, lui andò a controllare il gruppo elettrogeno, ma non tornava. Dopo venti minuti lo vediamo arrivare tutto bagnato e pallidissimo: era caduto in piscina e credo non se la cavasse bene con il nuovo. Abbiamo riso mezz’ora. Lui all’inizio non voleva che la storia si sapesse, ma ormai… io ho pure scritto una poesia molto divertente su quella scena, che adesso non ritrovo, ma prima o poi i miei figli recupereranno».
In televisione, era il 1975, fece coppia con Alberto Lupo in “Senza rete”.
“Parlerei per ore di lui. Non sapeva se odiarmi o amarmi, lui con la voce elegante, profonda e bellissima e io che lo chiamavo “Lupolo”, distruggendo ogni pathos…».
Ai tempi di “Un medico in famiglia” le avevano proposto una serie con protagonista un prete, un progetto che sarebbe diventato “Don Matteo”, altro spettacolo di straordinario successo.
«Quando fui chiamato per il nonno di Il medico, dalla Lux di Matilde Bernabei ricevetti la proposta per fare un prete di provincia che, il basco in testa, combatte con i preti giovani con la barbetta curata, una serie molto lunga, sempre per Rai 1. Perché – per inciso – io ho lavorato sempre con Rai 1, tante volte e tanti direttori generali hanno tentato di farmi firmare l’esclusiva, ma comunque sempre per loro ho lavorato. Ma quelli di Publispei e Il medico in famiglia portarono avanti il progetto più velocemente. Matilde Bernabei si arrabbiò, ma poi andò bene lo stesso. Chissà, forse avrei fatto Don Matteo e si sarebbe chiamato in un altro modo».
Quando lo ha visto, “Don Matteo”, poi le è piaciuto?
«Certo, ma nella mia testa c’è sempre stato il pensiero che, se avessi dovuto fare un ecclesiastico, in un film o fiction, avrei preferito un frate. L’ho fatto con Nino Manfredi, sono stato più contento. Il frate mi è sempre piaciuto, è più pieno di sostanza. Anche per questo sempre trovato in me una similitudine con papa Francesco: entrambi provenienti dal popolino, nazional popolari. I sacerdoti sono anche docenti universitari, il frate è quello che va a raccogliere l’elemosina. Anche se ce ne sono di coltissimi, ed è questo il caso di papa Leone, che spero di conoscere presto».

La incuriosisce, il nuovo pontefice americano?
«Molto. Intanto è più dinamico degli altri, ha vent’anni in meno, va ricordato. Io e papa Francesco avevamo la stessa età, classe 1936. Sto scrivendo un libro insieme a un giornalista vaticanista, ci siamo incontrati nell’ufficio di Bergoglio tante volte. Eravamo con il Papa anche quando ho avuto l’idea del titolo: Ho fatto ridere tre papi. Gli ho chiesto “Santità, le piace?”. E lui “Curioso. Il terzo sono io?”… Speravo avrebbe scritto la prefazione».
In tempi in cui la comicità è spesso aggressiva – penso ad Angelo Duro, che ha avuto un enorme successo – colpisce come Renzo Arbore dica che lei è invece il personaggio che viene maltrattato, quello che subisce. È vero?
«Renzo è andato in profondità, capisce bene le cose. Lui dice che sono come un fratello. E’ un gran “pupazzaro”, ha bisogno della vittima e ha capito che io, a differenza di altri comici – che sono vittime solo apparenti, tipo “Vieni avanti, cretino”, “Non capisci niente”, “Non hai studiato” – io sono una vittima vera. Obbediente, paziente. Ma poi, quando mi arrabbio, faccio ridere perchè divento cattivissimo: “vi spezzo il capocollo”. Renzo diceva “a Lino dobbiamo far perdere la pazienza, quando s’arrabbia fa ridere”. Così facemmo Il caso Sanremo, lui diceva “questo programma passerà alla storia”, io rispondevo “anche alla geografia”».
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Con Arbore avete interpretato insieme la versione pugliese di “New York, New York”: “Barlett Barlett”.
«La canzone nasceva da uno spettacolo che già facevo da anni. Me lo inventai nel ’79 e lo portai in America con Franco Franchi, al Madison Square Garden. Franco e Ciccio erano stati ingaggiati per un tour, ma Ciccio stava male, fu operato d’urgenza, Così agli organizzatori italoamericani Franco propose il mio nome, come sostituto. Franco e Ciccio del resto sono sempre stati carini con me. E così con Franco andammo in tournée in America: Chicago, Boston, New York, persino il Canada. Avemmo successo. È stata un’esperienza che mi ha formato».
So che parteciperà a un evento dedicato a Alberto Sordi, (con cui ha girato Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy ndr.) che era nato il 15 giugno del 1920.
«La mia ufficio stampa, Paola Comin, lo ha affiancato per decenni. Da tanto tempo segue me, specie con il tempo che passa: a volte mi chiama “Alberto” e mi commuovo. Ricordo che con Sordi ci incontrammo ai tempi di Un medico in famiglia, mi chiese “ma quando ricominci col nonnetto?”. Io gli feci notare “ma sono molto più giovane te”. E lui: “ma il nonno televisivo lo fai tu”. Pare che abbia visto qualche puntata e gli sia piaciuta. Lui mi chiamava il “cispadano” per il mio linguaggio, ci scherzavamo. Un giorno gli dissi “a forza di stare a Roma, anche grazie ai miei figli, inizio a dire “bira” e “buro”, me sa tanto che sto diventa’ romano”. E lui: “era ora”».

E’ stato un suo maestro?
«Insieme a Totò, che ho incontrato una volta sola, un quarto d’ora, a casa sua. Mi spedì un amico comune con cui lavoravo, con una lettera di raccomandazione sigillata, che io aprii durante la notte, col vapore. C’era scritto “Lino è un ragazzo pulito, che non tocca i culi delle soubrette e non si perde nei congiuntivi e nei condizionali”. Guardavo ad Alberto e a Totò per i tempi della loro comicità. Le fondamentali pause. Io dico sempre che bisognerebbe dare una laurea honoris – politici e attori – in base alle pause: tutto dipende da come sei capace di farle. Non mi sono mai piaciuti quelli che leggono tutto. Io voglio gente che sembra che si inventi le battute lì per lì».
Tornando al biglietto della raccomandazione: lei non toccava le soubrette e non ha mai mancato di rispetto alle bellissime attrici con cui ha condiviso il set, da Edwige Fenech a Gloria Guida, a Laura Antonelli.
«Lo dice sempre, Edwige, nelle interviste. Anche se facevamo scene osé ho mantenuto sempre il garbo, il rispetto. Non era scontato attraversare indenne quell’epoca e farsi voler bene da tutti».
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Dino Risi, “Il commissario Lo Gatto”.
«Mi spiaceva quando i figli di Risi, entrambi registi, parlando del padre e non citavano mai questo titolo nella filmografia. Eppure fu Dino a cercarmi, e mi stimava, mi voleva bene, mi diceva con la sua erre moscia: “Perché non ci siamo conosciuti prima…”. Ma di soddisfazioni ne ho avute, come la lettera di Fellini che tengo in cornice, mi scriveva che avremmo lavorato insieme: o Peppino De Filippo, che mi disse “sei una bella bestia di palcoscenico”.

L’ultima domanda va all’allenatore cinematografico “nel pallone”: Gattuso è il nuovo ct della Nazionale….
«Chiariamo. Hanno scritto sui media che io “rifiuto, boccio Gattuso”. No. Quando mi hanno chiesto di commentare con le “stronzete” di Oronzo Canà, ho detto, da romanista:”” tra De Rossi e Gattuso, certo che boccio Gattuso” o addirittura propongo Mourinho. Ma col senno di oggi, forse la scelta di Gattuso è quella migliore. Farà benissimo, un grande mio allievo, un raghezzo che già vedo dalla faccia, dalla barbetta, che metterà in campo la la Bi-zona alla Canà”.